Sono 85 le università italiane in più in 6 classifiche internazionali e ben 11 in più nelle prime 200 posizioni. L’ultimo report della CRUI – Conferenza Rettori Università Italiane – ha certificato il risultato di grande prestigio, dopo tre anni di attività del gruppo di lavoro a cui hanno partecipato 68 università con l’obiettivo di aumentare il numero di atenei italiani nelle classifiche internazionali e migliorare il posizionamento complessivo del sistema universitario nei ranking.
Dal 2017 infatti il gruppo di lavoro coordinato dalle Università di Bologna e Padova ha operato anche per elaborare linee guida comuni per il conferimento dei dati alle principali agenzie, e per proporre integrazioni e modifiche metodologiche agli enti gestori. Uno sforzo che sembra essere stato ripagato, e che rafforza l’immagine della qualità della formazione universitaria fornita dagli atenei del nostro Paese.
I risultati
Il dettaglio delle diverse classifiche: nella Arwu, le italiane nel 2017 erano 16 mentre oggi sono ben 46, e quelle in testa, tra le prime 200 posizioni, sono passate da 2 a 3. Nella classifica The le italiane sono aumentate in tre anni di 10 e le top sono passate da 2 a 3 tra il 2017 e il 2020. Nella classifica Qs gli atenei italiani sono passati da 31 del 2017 a 39 attuali, nella Qs Employability sono rimaste sempre 16 ma le università top sono passate da 5 a 7; nella Greenmetric il balzo tra il 2007 e il 2020 è stato da 22 a 29 ma le top sono più che raddoppiate, passando da 5 a 11. Nella classifica U-Multirank le italiane in classifica da 49 di tre anni fa sono passate a essere ben 79 oggi.
Le criticità da superare
Lo studio CRUI evidenzia però anche come se “la ricerca universitaria italiana gode di buona salute e continua a rendere il Paese competitivo nel contesto internazionale, la formazione universitaria soffre per un corpo docenti ridotto nei numeri e avanti nell’età, una progressiva riduzione di investimenti pubblici nella formazione e, in definitiva, un alto costo sociale in termini di NEET ed economico in termini di perdita di PIL”.