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Premio Lombardia è Ricerca

30/10/2019

Caltagirone: “Riabilitazione e prevenzione, così combattiamo ictus e Alzheimer”

Intervista al neurologo dell’IRCCS Santa Lucia, giurato del Premio di Regione

Redazione Open Innovation

Redazione Open Innovation

Regione Lombardia

I sintomi precoci di Parkinson e Alzheimer, la Neuro riabilitazione - a cominciare da quella per i pazienti colpiti da ictus -, le nuove neuro tecnologie. Questi i ‘poli’ della lunga carriera e attività di ricerca di Carlo Caltagirone, uno giurati del Premio Internazionale "Lombardia è Ricerca" di Regione Lombardia che verrà consegnato l'8 novembre al Teatro alla scala (leggi qui il programma della Giornata della Ricerca): dalla specializzazione in Neurologia e in Psichiatria all’Università Cattolica alla cattedra di Neurologia all’università di Tor Vergata, fino all’attuale Direzione scientifica della Fondazione IRCCS Santa Lucia di Roma, dove dal 1992 era responsabile del Laboratorio di Neurologia Clinica e Comportamentale. 

Autore di oltre 900 pubblicazioni in riviste internazionali, già Presidente della Società Italiana di Riabilitazione ad Alta Specializzazione, membro del Comitato Nazionale per la Biosicurezza e le Biotecnologie, Caltagirone si è occupato di funzioni cerebrali sia in condizioni normali sia patologiche, e da qui di diagnosi e trattamento di malattie neurodegenerative come Alzheimer, Morbo di Parkinson, Morbo di Huntington, Sclerosi Laterale Amiotrofica, paralisi sopra nucleare progressiva, demenza frontotemporale, oltre ad aver fatto parte del gruppo di lavoro che ha steso le linee guida per la diagnosi di Alzheimer e altre forme di demenza.

Professore, qual è stato il suo percorso di ricerca?

“Ho studiato i disturbi che nel cervello alterano le funzioni corticali superiori del linguaggio o del movimento, sia in condizione normali sia patologiche, e in seguito anche in relazione all’invecchiamento.

Sulla base di queste ricerche mi sono occupato di come compensare o ridurre tali disturbi, per rallentare la progressione delle patologie neurodegenerative e anche aumentare l’autonomia dei pazienti che ne sono colpiti, specie nel caso di lesioni più frequenti come quelle da ictus. Sull’Alzheimer, fa impressione pensare che quando ero studente sui testi questa malattia era ‘liquidata’ in mezza pagina: allora c’era meno attenzione alle patologie degli anziani, e si pensava che l’arteriosclerosi cerebrale - come veniva chiamata - fosse una conseguenza quasi inevitabile dell’invecchiamento.

Oggi molto è cambiato, occuparsene significa cercare di dare risposte a un’ampia fetta di popolazione: in Italia quasi un milione di persone soffre di una forma di demenza, rispetto al passato c’è la possibilità di migliorare molto le loro condizioni. Ad esempio con una diagnosi precoce, che permetta di intervenire rapidamente con una strategia sia neuro riabilitativa sia eventualmente farmacologica.

Per questo sono stati messi a punto diversi strumenti diagnostici: di tipo cognitivo, neuro immagini, neurofisiologici come i potenziali evocati”.

 

“Per l’Alzheimer ci sono potenzialità preventive significative: stimolazione cognitive, controllo della pressione e ai primi sintomi misure anche farmacologiche permettono di rallentare la progressione dell’Alzheimer nella misura di 1 a 2”.

 

Cosa sono i potenziali evocati?

“Esami che permettono i raccogliere una registrazione di segnali bioelettrici in base a stimoli dati. Segnali che hanno ‘forme’, caratteristiche diverse a seconda del grado di efficienza del cervello, ad esempio se il paziente è anziano: si possono dunque studiare questi pattern per farci un’opinione sulla condizione fisiologica del cervello dei pazienti esaminati. Questo ci ha aiutato nella diagnosi precoce: se in un paziente senza sintomi di demenza si rilevano potenziali evocati simili a quelli di un paziente di 70 anni, posso intuire che tali segni neurofisiologici rimandano non a semplici situazioni di stress ma a qualcosa di più preoccupante.

Allo stesso modo, anche le neuro immagini e i test neuro cognitivi - che misurano memoria, attenzione, capacità del linguaggio, funzioni di astrazione - possono essere indicativi di una presenza ‘nascosta’ di una forma di demenza. Mettendo insieme tutti questi dati si riesce a riconoscere quei pazienti che poi avranno maggiori o minori possibilità di ammalarsi di Alzheimer o di altre malattie neurodegenerative: così sono arrivato a occuparmi anche di prognosi, ormai dall’inizio degli anni ’90".

Cosa è cambiato in questi trent’anni?

“Moltissimo. La diagnosi di Alzheimer, per dire, non si fa più solo in pazienti ultrasettantenni o ultraottantenni e con abilità già compromesse ma in pazienti più giovani, con manifestazioni molto lievi: in questo modo si può ragionare su come evitare che peggiorino.

Non solo: a fine anni ’90 si facevano previsioni allarmanti sullo sviluppo delle malattie neurodegenerative, ad esempio per l’Italia si stimavano 1,8 milioni di malati nel 2020. E invece non è stato così: studi epidemiologici condotti in Inghilterra, nei paesi Scandinavi e anche in Italia hanno dimostrato che c’è stato un incremento minore del previsto dei malati di Alzheimer, nonostante la popolazione sia invecchiata.

È successo infatti che grazie alla prevenzione e a una maggiore istruzione sono migliorati gli stili di via: questo ha fatto calare le patologie più frequentemente associate all’Alzheimer come le malattie cardiovascolari e legate a fattori come pressione alta, fumo, mancanza di attività fisica e sociale.

Questi studi hanno dimostrato insomma che ci sono delle potenzialità preventive significative: del resto, come dico sempre la lotta alla Tbc ha ottenuto risultati importanti molto prima che la streptomicina e quindi altri antibiotici fossero in grado di controllare il bacillo che provocava l’infezione, e lo ha fatto grazie alla migliore alimentazione, all’aria buona e al riposo nei cosiddetti sanatori.

Allo stesso modo, stimolare i pazienti dal punto di vista cognitivo, controllare la pressione e ai primi sintomi introdurre controlli stretti e alcune misure, anche farmacologiche, permette di rallentare la progressione dell’Alzheimer nella misura non indifferente di 1 a 2”.

 

“In Italia l’ictus colpisce ogni anno 150 mila persone ma ancora non si mettono in campo misure preventive adeguate: la neuro riabilitazione rischia di essere riservata ai casi gravissimi e non a chi potrebbe avere una riduzione dei deficit del 50%. Si spende per l’assistenza, mentre intervenendo prima si potrebbero evitare anni di disabilità”

 

Quali sono i sintomi più lievi che suonano come campanelli d’allarme?

“Purtroppo non si possono codificare: un’altra delle cose scoperte in questi anni è che la malattia di Alzheimer non si esprime in un unico modo. Non comporta cioè solo un disturbo della memoria ma del linguaggio, dell’orientamento spaziale, del comportamento (il malato è più disinibito e aggressivo). È importante allora rivolgersi a un buon centro, in grado di fare uno screening e distinguere tra situazioni di poco conto e altre più complicate”.

Sul fronte della ricerca in questo campo l’Italia è molto valida: ma quanto sono diffusi i risultati ottenuti?

“C’è ancora una gap di informazioni, anche se si è già ridotto. I medici di base sono più consapevoli delle caratteristiche dell’Alzheimer e di altre patologie del sistema nervoso, anche se ancora non si mettono in campo misure preventive adeguate. Penso soprattutto ai disturbi neuro motori associati a una patologia comune come l’ictus, che ogni anno in Italia colpisce più di 150 mila persone.

Di queste, un certo numero patisce conseguenze più lievi, grazie anche alla diffusione delle Stroke Unit, almeno un 35-40% però ne esce con disturbi gravi: perché non arrivano in tempo a una Stroke unit, perché emorragici e non ischemici, perché il loro cervello è già provato da altre situazioni dovute all’età o a determinati fattori di rischio… Ebbene, in questi casi una riabilitazione cognitiva e motoria produce un miglioramento misurabile di almeno il 50% dei deficit iniziali.

Tale neuro riabilitazione però non si fa certo in una palestra sotto casa: occorre comprendere la natura del disturbo, e studiare terapie ritagliate su misura per il paziente, in Italia i centri abilitati non sono molti”.

Cosa rischiano dunque le vittime di ictus?

“Che la neuro riabilitazione finisca con essere riservata solo a casi gravissimi, come ad esempio i pazienti usciti dal coma, casi che però hanno molte meno probabilità di migliorare mentre andrebbe garantita anche a chi ha maggiori probabilità di beneficiarne.

È un problema di risorse, competenze, cultura, nel senso che ancora non si comprende quanto sia importante questo passaggio. Con il paradosso che limitando la neuro riabilitazione ai casi gravissimi non si risparmia: alla fine i soldi si spendono lo stesso in assistenza sociale e pensioni di invalidità, mentre intervenendo prima si potrebbero evitare dolore e anni disabilità a queste persone. Senza contare il nodo di una disuguaglianza sociale profonda, visto che la neuro riabilitazione rimane appannaggio di chi può permettersela, ha cioè i mezzi economici e sociali per affrontare la situazione”.

Veniamo al suo ruolo di giurato del Premio come quello di “Lombardia è Ricerca”: che cambiamenti può produrre un riconoscimento di questo tipo?

“Intanto può contribuire a colmare proprio quel gap di cui parlavo tra la ricerca scientifica, le sue applicazioni e una conoscenza di massa delle scoperte più significative. Come ad esempio quella di Kroemer sulla riduzione calorica come meccanismo per ridurre al minimo i fattori di rischio legati all’invecchiamento, una scoperta già nota che quest’anno grazie al Premio viene portata all’attenzione del grande pubblico con innegabili benefici di tipo medico sociale”.

 

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