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29/05/2019

Zirpoli (CAMI): “Fusione FCA Renault, una chance su Europa e sviluppo dell’elettrico”

Intervista al direttore del Center for Automotive and Mobility Innovation di Ca' Foscari

Redazione Open Innovation

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Regione Lombardia

Più chance nello sviluppo dei veicoli elettrici e un nuovo ruolo per l’Europa. Ma anche molte incognite sulla gestione effettiva delle sinergie tra i due gruppi a livello di stabilimenti e del personale, progettisti compresi.

Questa la lettura dell’annunciata fusione tra FCA e Renault data da Francesco Zirpoli, professore ordinario al Dipartimento di Management dell’Università Ca’ Foscari Venezia e direttore scientifico del CAMI, Center for Automotive and Mobility Innovation di Ca' Foscari.

Professore, quella di FCA è una mossa inevitabile nel contesto dell’attuale mercato automotive?

“Di certo non arriva a sorpresa: FCA è da anni in cerca di un partner industriale, era un obiettivo già di Marchionne. Che sia intelligente, dipende dai punti di vista. Lo è da quello di Exor (la controllata della famiglia Agnelli, ndr): se venissero confermate le voci di un dividendo compensativo, gli azionisti di riferimento incasserebbero una somma notevolissima ottenendo comunque una posizione di rilievo all’interno di un gruppo molto più grande, con delle prospettive affini all’attitudine degli Agnelli di ridurre il loro ruolo nell’automotive”.

 

"Non esistono precedenti di fusioni alla pari tra grandi gruppi che abbiano avuto successo, sarebbe una novità assoluta”

Si parla della nascita del terzo gruppo produttivo mondiale, con 8,7 milioni di veicoli e ricavi per 170 milioni di euro: numeri notevoli…

“In realtà i numeri dicono molto poco. Non raccontano, ad esempio, che una fusione tra pari nel settore automotive è impresa ardua se non impossibile: non esistono precedenti del genere che abbiano avuto successo, sarebbe una novità assoluta. L’unico caso simile con grandi gruppi coinvolti è appunto quello che ha portato all’acquisizione di Chrysler da parte di FCA. Allora però le circostanze erano del tutto diverse: Chrysler era praticamente in bancarotta e con alle spalle anni di riduzione degli investimenti, i suoi dipendenti erano ‘in fuga’ o timorosi di perdere il lavoro e quindi molto più disponibili nei confronti di un partner esterno. Senza contare che allora il gruppo FCA era guidato da manager fuori dal comune e anche questo pesa, per la riuscita di operazioni di questo livello”.

Vede insomma qualche nota stonata, il plauso generale intorno alla possibile fusione non la convince?

“Non c’è dubbio. Se si va a rileggere i commenti degli addetti ai lavori prima dell’acquisizione di Chrysler da parte della Daimler si vede che i toni e le considerazioni sono sempre gli stessi -complementarietà, somma di quote di mercato, sinergie e razionalizzazioni -, allora si parlò addirittura di un ‘matrimonio in paradiso’. Se però si vanno a leggere le statistiche di risultato di operazioni straordinarie di questo genere si diventa inevitabilmente più cauti”.

 

“Noto che finora non si è parlato di conquista di nuove quote di mercato ma solo di sinergie e riduzione dei costi”

 

Perché? Quali aspetti trova problematici?

“Anzitutto, è estremamente complesso far funzionare l’integrazione tra due aziende di così grandi dimensioni, con centinaia di migliaia di dipendenti e processi articolati. Secondo punto: i comunicati diffusi non parlano di conquista significativa di nuove quote di mercato grazie alla fusione, ma solo di sinergie che permetteranno una riduzione dei costi. Elkann ha assicurato che non si chiuderanno stabilimenti: sarei stato sorpreso da una dichiarazione diversa, ma tra FCA e Renault le duplicazioni e sovrapposizioni sarebbero molte, soprattutto a livello europeo, dagli impianti ai team R&S, alla catena di fornitori. Allora chi rischierà di più, gli ingegneri di Torino o quelli di Parigi? Mi pare insomma che si sopravvalutino le somme algebriche e che si sottostimi invece il nodo di come, in concreto, si attueranno le sinergie. E la mia è un’analisi che si basa sulla storia dell’industria: i precedenti ci insegnano che la nascita di nuovi grandi gruppi funziona quando l’acquirente domina l’acquisito, come nel caso dell’acquisizione di Skoda da parte di Volkswagen. Oppure, al contrario, quando le due aziende coinvolte mantengono una sostanziale indipendenza, com’è accaduto tra Nissan e Renault: tanto è vero che quando Renault ha provato a consolidare in modo diverso l’assetto l’alleanza è andata in crisi”.

È stato sottolineato che la fusione riporterebbe il baricentro di FCA in Europa, rendendo il Vecchio Continente di nuovo protagonista del mercato automotive: non è così?

“Questo è vero. Fatti salvi i dubbi di cui sopra, è evidente che l’Europa deve mettere a fattor comune le proprie eccellenze, quindi un progetto europeo e un car maker europeo forte non possono che essere accolti positivamente. Aggiungo però che l’Europa deve avere una politica industriale equilibrata: non si può applaudire oggi alla fusione FCA-Renault e poi farsi la guerra tra Italia e Francia su altri fronti economici, o sui problemi che magari emergeranno nella catena di fornitura. Occorre insomma che tutti i Paesi partecipino a tale politica in modo equilibrato: se invece a prevalere saranno i particolarismi a rimetterci saranno come sempre le realtà più deboli”.

 

“Ben venga un car maker europeo forte. A condizione che l’Europa riesca ad avere una politica industriale equilibrata: i particolarismi danneggiano i più deboli”

 

Ovvero quali?

“Anzitutto quelle che nel settore automotive dipendono in larga misura da un unico cliente. E in Italia, come evidenziano i dati dell’Osservatorio sulla componentistica automotive italiana (consultabile qui, ndr), ancora oggi circa il 50% dei fornitori è ampiamente dipendente dalle commesse FCA. Altro fronte aperto: se lo Stato francese come sembra sarà azionista del neonato colosso europeo, c’è il rischio che i dipendenti italiani del gruppo siano meno tutelati di quelli francesi, compresi ingegneri che pure rappresentano un’eccellenza mondiale a livello di progettazione. A meno che, come dicevo, la partita non venga gestita anche dalla politica”.

E sul lato dell’innovazione? Si dice che la fusione colmerebbe il deficit dei modelli FCA su questo fronte, in particolare riguardo all’elettrico, condivide?

“Per rispondere bisognerebbe sciogliere il grande punto interrogativo legato al rapporto con Nissan: è il partner giapponese ad avere le tecnologie di punta su elettrico e ibrido. È vero che Renault è comunque più avanti di FCA in questo campo, rimane il fatto che per sviluppare le tecnologie del futuro sarà fondamentale la triangolazione con Nissan. Ricordo poi che l’elettrificazione è un’opzione, ma non l’unica: convivranno sistema di propulsione elettrico ed endotermico, compreso metano e gas, nel futuro dell’auto c’è anche l’idrogeno. Quest’ultimo avrà impatto non tanto sulla propulsione, che rimarrà elettrica, quanto sui fornitori di asset complementari, rete di distribuzione e batterie che richiederanno una diversa tecnologia”.

Quali passi potrebbero aiutare il settore automotive italiano a innovare?

“Le strade sono sempre due, quelle della ricerca pubblica e di quella privata, con la prima che solitamente attiva la seconda. In Italia purtroppo c’è un deficit di fondi per entrambe. È difficile pensare che l’Italia possa essere competitiva sul fronte innovazione se da decenni i finanziamenti per la ricerca di base sono incommensurabilmente inferiori a quelli non dico di USA o Giappone ma di Francia, Germania e Corea del Sud, Paesi di dimensioni e potenzialità paragonabili all’Italia. D’altro canto, la componentistica italiana pur con qualche eccezione non si è distinta per l’attitudine all’innovazione. Non a caso in Italia abbiamo stabilimenti di grandi gruppi stranieri e pochissimi gruppi italiani di respiro internazionale: per questo la vendita di Magneti Marelli ai giapponesi di Calsonic Kansei è una pessima notizia”.

 

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