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11/09/2017

Heartwatch, la start up lombarda che previene l’ictus. Intervista al Ceo Magrin

L’idea di alcuni studenti del Politecnico di Milano: una videocamera rileva anomalie cardiache

Redazione Open Innovation

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Regione Lombardia

Una videocamera per salvare una vita. Per prevenire patologie invalidanti come l’ictus, e tenere sotto controllo anomalie cardiache che troppo spesso rimangono silenti fino a quando il danno non è grave, semplicemente inquadrando il volto di una persona: la videocamera individua infatti ogni variazione di respiro e battito cardiaco, e gira il segnale a chi di dovere. Ecco l’idea innovativa, tutta made in Lombardia, di alcuni studenti ventenni del Politecnico di Milano che ne hanno fatto una start up, Heartwatch. Con già alle spalle diversi premi vinti, ma anche un “cambio di pelle” rispetto agli esordi. All’orizzonte, invece, c’è l’ingresso in un post acceleratore a Ginevra: “Qui è ancora difficile per noi, le competizioni per start up non premiano il settore del digital health. Ma speriamo che questa tendenza cambi”.

Non è certo un tipo che si scoraggia Guido Magrin, classe 1993, monzese, fondatore di Heart Watch di cui è Ceo. A lui dal 2016 si affianca come Cto Luca Iozzia, dottorando in Ingegneria Biomedica sempre del Politecnico. A oggi, il team di Heartwatch conta otto persone e comprende anche Roberto Salamina (Politecnico) per l’area business, mentre lo sviluppatore web Luca Bruno arriva dall’ateneo di Padova e l’analista dati Davide Silvestri, post doc in Ingegneria aerospaziale, da quello di Bologna. Main advisor sono poi Riccardo Barbieri, docente di Ingegneria Biomedica in piazza Leonardo da Vinci a Milano e due specialisti dell’ospedale San Raffaele, il cardiochirurgo Stefano Benussi e il direttore della riabilitazione cardiovascolare Domenico Cianflone.

Magrin, la vostra idea sembra l’uovo di Colombo: ma funziona?
“Direi proprio di sì. La nostra videocamera rileva la frequenza cardiaca e respiratoria con un’accuratezza del 98%, e del 96% per la fibrillazione atriale, un’anomalia subdola perché silente: non dà cioè sintomi evidenti fino a quando non si manifesta con un ictus e dunque con conseguenze fisiche pesanti, come emiparalisi. Ricordo che le malattie cardiovascolari sono tra le più diffuse, e che l’ictus ha costi sociali ed economici altissimi per le famiglie di chi ne viene colpito”.

Da dove nasce la sensibilità verso questo problema medico?
“Purtroppo da un’esperienza personale. Nel 2008 mio nonno è stato colpito da un ictus, causato proprio a una fibrillazione atriale. Ho visto che cosa ha significato per lui e per la mia famiglia, anche mia madre poi soffre di aritmia. Nel 2014, ero al primo anno di Ingegneria Informatica del Politecnico, ho pensato che sarebbe stato utile avere uno strumento in grado di rilevare la frequenza del battito cardiaco in modo continuativo ma non invasivo, al contrario di quanto accade con i monitoraggi attuali. Con altri tre amici abbiamo cominciato a pensare a un sistema ‘leggero’ ed economico, alla portata di tutti: così è nata Heartwatch. La prima tecnologia a cui abbiamo fatto ricorso è stata quella dei braccialetti hi tech, molto diffusi anche per il fitness. Il nostro braccialetto era collegato a una app che ne rilevava i dati e se registrava irregolarità – con tre diversi livelli di allerta - nel battito cardiaco lo segnalava all’utente. Una partenza con pochi fondi, i nostri risparmi”.

Da allora, quanta strada avete fatto e come?
“Molta, anche in senso letterale! Nel 2015 siamo arrivati a rappresentare l’Italia a Seattle alla finale di Imagine Cup, la competizione internazionale di Microsoft per idee high tech, dopo avere superato la selezione nazionale e le semifinali europee. Da allora, abbiamo girato tanto all’estero. Prima però abbiamo dovuto ripensarci profondamente. Abbiamo capito che i braccialetti non potevano ‘decollare’, occorreva differenziarsi. E soprattutto che non avremmo raggiunto il nostro obiettivo, quello di individuare con precisione alcune anomalie cardiache. Allora ci siamo fermati, c’è chi ha preferito non andare avanti mentre altri – e questo ci ha fatto molto piacere – ci hanno cercato per lavorare con noi. Così è stato per Luca Iozzia, che ci ha permesso di riorientarci verso l’uso di una videocamera”.

Come funziona il meccanismo di prevenzione?
“La nostra videocamera rileva le micro variazioni cromatiche del nostro volto, dovute al diverso afflusso di sangue, grazie a un allenamento su centinaia di volti ripresi in parte tra studenti del Politecnico, in parte tra pazienti ospedalieri e ospiti di fiere tecnologiche che si sono resi disponibili. Insomma è come se il nostro volto ‘pulsasse’ in continuazione, in un modo che l’occhio umano non può percepire e che invece non sfugge a un occhio elettronico: queste ‘pulsazioni’ vengono elaborato da noi attraverso algoritmi ad hoc e ci permettono di ricostruire eventuali anomalie del battito. Quelle respiratorie invece le rileviamo interpretando le oscillazioni delle spalle e della cassa toracica. L’accuratezza appunto è molto alta, ed è raggiunta grazie alle indicazioni dei cardiologi del San Raffaele”.

Chi sono i vostri utenti, oggi, e a quale mercato guardate?
“In un contesto in cui si cerca sempre più di evitare l’ospedalizzazione, ci rivolgiamo soprattutto ad anziani e non che abbiano bisogno di assistenza, magari per una riabilitazione, e alle strutture che li ospitano. Abbiamo visto che case di riposo e centri diurni sono molto interessati a installare nostre videocamere per garantire un monitoraggio non invasivo dei propri ospiti. In questi casi, eventuali anomalie segnalate da Heartwatch vengono subito girate al personale delle strutture. I costi per le famiglie sono irrisori, a fronte di rette che si aggirano sugli 80 euro al giorno si tratta di aggiungere più o meno il prezzo di un caffè”.

I dati sul mercato ce li fornisce poi Roberto Salamina: per avere un’idea del business potenziale, basta pensare al fatto che “in Lombardia, dati 2013, i posti letto in strutture residenziali sono 68.841, quelli in centri diurni (semi residenziali) ammontano a 15.373”.

E per quel che riguarda la privacy?
“Nessuna violazione, il sistema rileva e registra i dati su frequenza cardiaca e respiratoria e contestualmente cancella il video con cui sono stati acquisiti”.

In definitiva, è ottimista per il futuro di Heartwatch?
“Siamo stati ospiti per sei mesi di un pre-acceleratore di imprese a Dubai, dove abbiamo imparato di più sul fronte del business plan, da settembre a Ginevra verremo sostenuti nella ricerca fondi, ci servono 700 mila euro per accedere a due certificazioni medicali. Siamo stati a Londra, Parigi, Berlino e dappertutto abbiamo trovato persone che hanno creduto in noi. Il nostro tasso di successo in competizioni per start up all’estero è di nove su dieci, qui da noi putroppo non è andata altrettanto bene: mentre le start up più orientate al settore farmaceutico trovano fondi, il nostro settore ovvero il digital health sembra riscuotere poco interesse. Del resto, capiamo che la novità che portiamo è radicale e che lo stesso settore deve ancora svilupparsi. Intanto collaboriamo appunto con alcune strutture sanitarie perché ci integrino nella loro offerta per ospiti/pazienti, mentre abbiamo in corso una sperimentazione della nostra video camera con la Electrolux per misurare il tasso di stress dei dipendenti”.

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